La speranza equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi.

Nakba. Due storie, settecentomila storie

Posted: Novembre 25th, 2013 | Author: | Filed under: General, Palestina per Principianti, Storia | Tags: , , , , , , | Commenti disabilitati su Nakba. Due storie, settecentomila storie

[Il terzo capitolo del nostro “compendio” di storia palestinese per principianti comincia a porre questioni di metodo. Se fino ad ora ci eravamo limitati a proporre qualche interpretazione sulle cause scatenanti del conflitto, ora ci troviamo davanti al momento in cui questo conflitto ha preso la forma odierna. E’ impossibile a questo punto sottrarsi ad un’esposizione “militante” dell’intreccio di vite che cambiarono irrimediabilmente a cavallo del 1948.  Ma non possiamo nemmeno permetterci una narrazione personale compiuta di un momento tanto convulso. Per questo abbiamo deciso di giustapporre ad un brevissimo riassunto dello sviluppo complessivo dei fatti una seconda parte in cui ci limitiamo più che altro a rimandare alle raccolte di testimonianze palestinesi su quella che non smettono di chiamare nakba]

La storia scritta: la guerra del ’48. Alla fine degli anni Trenta, i tentativi inglesi di dividere la Palestina in due stati erano falliti (come ampiamente prevedibile). Lo stesso accadde con il tentativo di fermare l’immigrazione ebraica attraverso i tre Libri Bianchi, che si scontrarono con la realtà dell’aumento del flusso migratorio dovuto principalmente alle persecuzioni nazifasciste degli stessi anni. Il “conflitto a tre” si faceva sempre più acceso e diventava sempre più problematico per la Gran Bretagna alle prese con la guerra mondiale. Quando nel ’47 si giunse all’attentato del King David Hotel, gli inglesi rimisero il problema della spartizione all’ ONU e annunciarono il loro ritiro per l’anno seguente. La commissione UNSCOP, nata per l’occasione, s’impegnava a proporre un piano di spartizione che fungesse da compromesso, partendo dal presupposto che:

Era relativamente facile concludere, a quel punto [dopo le consultazioni informali], che, siccome entrambe le fazioni  mantengono con decisione le loro richieste, è manifestamente impossibile in tali circostanze soddisfare completamente le suddette richieste, mentre è al tempo stesso indifendibile accettare incondizionatamente le richieste di una parte a spese dell’altra. (dal testo del Rapporto UNSCOP del 1947)

Il piano, approvato con la risoluzione 181 dalle Nazioni Unite, soddisfaceva tutti meno le parti in causa: la Gran Bretagna rimase fredda sottolineando le difficoltà pratiche, mentre da parte araba e da parte della destra ebraica venne un netto rifiuto. Quali che siano state le ragioni di tale rifiuto (il discorso è senz’altro complicato, e ci impegnamo a trattarlo in un altro post), quando il 15 maggio 1948 gli inglesi terminarono il “mandato” sulla regione, il conflitto era già iniziato. Alla vigilia della ritirata britannica veniva dichiarato e riconosciuto lo stato di Israele, il cui esercito si disfece dell’ esercito arabo di liberazione inviato dai paesi della Lega Araba. Qui tutto si ferma, e rimane il trauma, la nakba da una parte, “l’indipendenza” e la potenza dall’altra. Nel ’49 la guerra era finita: Israele aveva occupato il doppio dei territori stabiliti dalla risoluzione, la Palestina aveva visto settecentomila uomini e donne fuggire verso i paesi limitrofi. L’appropriazione della terra attraverso la cancellazione dei suoi abitanti.

Le storie orali. La nakba. Il verbo arabo nakaba significa “rendere infelice”, ma anche “deviare, scostarsi da (una via)”.  Nakba non è una di quelle parole rese maiuscole da una Storia esterna, superiore e imparziale. Nakba porta in sé la presa di coscienza violenta e immediata di una svolta gigantesca e distruttiva, di un terremoto storico in cui si è perso tutto, un cambiamento immenso che però rende, appunto, infelici. “Catastrofe”, si traduce. Nakba è il titolo, forse anche il sunto, di decine di migliaia di racconti che narrano di villaggi abbandonati, di parenti morti, di battaglie perse, di fughe e di esilii forzati. Un trauma condiviso, perennemente minacciato di essere rimosso, di scomparire dietro espressioni neutre come “questione palestinese”, “guerra arabo-israeliana”, tra le tende dei campi profughi con la loro faticosa normalità o nella banalità sorridente dei vertici intergovernativi. In queste storie si intrecciano i ricordi pieni di nostalgia per i villaggi abbandonati, quelli d’infanzia di chi allora era un bambino, le memorie rabbiose di chi ha combattuto, in un mosaico collettivo che assume quasi sempre la forma di racconti orali e spontanei che passano attraverso generazioni diverse.

La parola nakba non deve necessariamente essere scritta per guadagnare forza. La memoria storica non è un lusso se sei nato in un campo profughi. Ma per evitare che queste narrazioni appassiscano, che si richiudano su se stesse, è importante conservare queste testimonianze, perché si possa continuare a ricucirle in un mosaico più grande, che vada oltre la Palestina verso tutte le altre lotte di resistenza. Linkiamo di seguito tre progetti on-line che si occupano di raccogliere e conservare testimonianze sulla Nakba:

Nakba Archive, che raccoglie testimonianze molto varie, in arabo con sottotitoli in inglese.

Al-Nakba Oral History Project, progetto aperto ancora in fase di sviluppo che conta molte testimonianze la maggior parte delle quali però è ancora senza traduzione.

Nakba Survivor raccoglie invece video di testimonianze (in inglese) delle generazioni più giovani.

Raccomandiamo di sfuggita a tutt@ la partecipazione alla manifestazione nazionale del 30 novembre a Torino in risposta al vertice previsto per il 2 dicembre a Roma tra governo italiano e Palestinese, ma anche in solidarietà alle comunità minacciate dal Piano Prawer, oltre che alla comunità palestinese in generale. Noi ci saremo.

[Mentre riflettete: Ibrahim Maalouf – Diaspora]


Palestina negli anni Trenta. Dramma a tre voci.

Posted: Ottobre 4th, 2013 | Author: | Filed under: General, Palestina per Principianti, Storia | Tags: , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Palestina negli anni Trenta. Dramma a tre voci.

Personaggi: Commissione Peel, arabi, ebrei, inglesi (nazisti, da qualche parte). Trama, conflitto a tre parti: gli arabi palestinesi combattono gli ebrei sionisti in cui vedono uno strumento degli inglesi colonialisti che combattono a loro volta; gli ebrei sionisti combattono gli inglesi colonialisti in cui vedono uno strumento degli arabi nazionalisti che combattono a loro volta; gli inglesi colonialisti reprimono tutto, ma si accorgono di non poterlo fare per sempre.

Anno domini: 1937, 1315 ca. dopo l’Egira musulmana. E’ nel periodo tra le due guerre mondiali che si trovano le radici più profonde del conflitto per la Palestina. Un conflitto annunciato (e ignorato), poi, una volta esploso, scomodo e spinoso per gli stati occidentali, inatteso e tragico per il medio oriente. Nel momento in cui assumeva il mandato sulla Palestina e dava appoggio alle richieste sioniste con la dichiarazione Balfour, la Gran Bretagna si trovava davanti una regione relativamente stabile e prospera, ma attraversata da profonde contraddizioni. I coloni sionisti erano circa trecentomila, e sarebbero andati aumentando dopo il ’33 per le persecuzioni nazifasciste (fatto che tra l’altro non impedì a Hitler e Mussolini di appoggiare alcuni movimenti nazionalisti arabi in funzione antiebraica e antbritannica). In breve tempo si erano appropriati (spesso comprandoli a pochissimo) di terreni sempre più estesi e decisamente fertili (e la terra fertile in Palestina non è infinita). Questa non sarebbe stata una novità nel mondo arabo, non fosse che i nuovi coloni parevano nettamente intenzionati a formare uno stato su quelle terre. Gli inglesi speravano comunque di riuscire a mantenere la stabilità (e il loro dominio coloniale).

Queste speranze furono alla prova dei fatti infondate poichè, nonostante la Palestina nel suo complesso fosse diventate più prospera, le cause delle rivolte del 1920 e ’21, segnatamente la richiesta da parte degli arabi di indipendenza nazionale e la loro opposizione al Focolare Nazionale [ebraico], sono rimaste immodificate e addirittura si sono accentuate per l’azione di “fattori esterni”, segnatamente la pressione degli Ebrei dell’Europa sulla Palestina, e lo sviluppo del nazionalismo arabo nei Paesi circostanti. (Dal testo del Rapporto presentato dalla Commissione Peel alle Nazioni Unite, come le citazioni seguenti; trad. mia)

La Commissione Peel (dal nome del funzionario britannico che la presiedeva) era stata creata per cercare una soluzione definitiva al conflitto, che dal 1935 aveva assunto proporzioni considerevoli con la “Grande Rivolta” araba, repressa violentemente dall’esercito inglese e resa ancor più sanguinosa dall’intervento delle milizie sioniste (Haganah e Irgun). Le svariate migliaia di vittime della repressione non potevano che rendere ancora più incandescente la situazione, posto che le stesse forze ebraiche si mostravano insofferenti alla presenza inglese. La Commissione inquadrava la situazione in una chiave semplice e netta: gli opposti nazionalismi arabo ed ebraico certo non lasciavano molte speranze alla Gran Bretagna di mantenere il controllo coloniale, ma parevano anche impedire qualsiasi forma di convivenza tra le altre due parti in gioco.

Il carattere del Focolare Ebraico è fortemente nazionalista. Non è nemmeno in questione la fusione o l’assimilazione tra le culture di Ebrei e Arabi. Il Focolare Nazionale non potrà essere semi-nazionale […] Il nazionalismo arabo è tanto intenso quanto quello ebraico. La richiesta dei leader arabi di autogoverno nazionale e di abbattimento del Focolare Nazionale Ebraico sono rimaste identiche al 1929.

D’altra parte era difficile che gli inglesi premessero troppo per una “assimilazione” che avrebbe rischiato di rivoltargli contro l’intera popolazione della regione su un unico fronte (per quanto quest’ipotesi fosse remota). Ma il divide et impera è un gioco pericoloso, specie quando le due parti divise hanno motivi uguali ed opposti per volerti distruggere prima di annientarsi tra loro. La Commissione Peel capì per prima che l’unico modo di salvaguardare la propria influenza, anche solo indiretta, era di dividere geopoliticamente l’area.

In queste circostanze la pace può essere mantenuta in Palestina sotto il Mandato [coloniale britannico] solo attraverso la repressione. Ciò implica il mantenimento di servizi di sicurezza ad un costo così alto che gli altri servizi, diretti “al benessere e allo sviluppo” della popolazione non potrebbero essere incrementati e anzi dovrebbero venire tagliati. […] L’idea della Partizione è stata senza dubbio pensata in un primo tempo come soluzione del problema, ma è stata probabilmente scartata perchè ritenuta impraticabile. Le difficoltà sono certo molto grandi, ma quando siano considerate da vicino, non paiono così insormontabili […] La Partizione offre possibilità di pace definitiva. Nessun altro piano lo fa.

Infatti il piano fu rifiutato dagli arabi insieme alla “pace definitiva” britannica, che suonava certo minacciosa. Nuove sollevazioni arabe avrebbero costretto gli inglesi a limitare l’immigrazione ebraica (con i tre Libri Bianchi), portando già durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale, ad un esplosione del terrorismo sionista.


Un po’ di preistoria. La nascita del sionismo

Posted: Luglio 19th, 2013 | Author: | Filed under: Palestina per Principianti, Storia | Tags: , , , , | Commenti disabilitati su Un po’ di preistoria. La nascita del sionismo

In principio era l’apartheid. La parola sarebbe nata solo nel 1917, proprio alla fine di questa storia, ma descrive perfettamente la storia degli ebrei in Europa. Storie di esclusione, di ghetti, ma anche di persecuzioni, di pogrom. Storie lunghe millenni. Quando il padre del sionismo moderno, Theodor Herzl, scrisse Lo stato ebraico (1896), il punto di partenza non poteva che essere questo:

Nessuno può negare la gravità della questione degli Ebrei. Dovunque vivano in numero percettibile, essi vengono più o meno perseguitati. […] Attacchi nei Parlamenti, nelle assemblee, sulla stampa, dal pulpito, sulla strada, in viaggio -ad esempio, l’esclusione da alcuni hotel- addirittura nei luoghi ricreativi diventano ogni giorno più numerosi. Le forme di persecuzione variano secondo i paesi e gli ambiti sociali nei quali avvengono.         [traduzione mia]

A cavallo tra Otto e Novecento, l’Europa era ferventemente positivista, liberale, industrializzata. L’antisemitismo, la vergognosa propagine di medioevo che si trascinava persino nelle nazioni illuminate (basti pensare all’affaire Dreyfus), sembrava eliminabile (per quanto con ogni proabilità non rappresentasse un problema per i governanti di allora). Era il periodo d’oro dell’impero britannico, quello in cui una grossa parte dell’opinione pubblica si appellava alla missione civilizzatrice occidentale nel “terzo mondo”. Non è così strano che la soluzione (almeno teorica) venne trovata all’interno di ciò che più di tutto muoveva la politica, l’ideologia e le speranze dei grandi stati europei: il colonialismo. La civiltà si muoveva, o così pareva, al ritmo dei flussi di materie prime che arrivavano dall’Africa, delle ferrovie costruite in India. La nascita di un impero sembrava naturale, spontanea, giusta. Almeno nei salotti dell’Inghilterra vittoriana.

Questo clima culturale non poteva non influenzare gli intellettuali che diedero vita al sionismo. L’idea di Herzl riflette (in maniera senz’altro più ingenua) lo stesso ottimismo: le persecuzioni contro gli ebrei si sarebbero risolte con l’emigrazione di questi ultimi in una terra che sarebbe diventata lo stato ebraico:

L’intero piano è nella sua essenza perfettamente semplice, come dev’essere necessariamente se deve avvenire con la comprensione di tutti. Garantiteci la sovranità su una porzione del globo abbastanza grande da soddisfare i giusti requisiti di una nazione; al resto penseremo noi.

Le due “porzioni di globo” più quotate erano allora l’Argentina, meta di gran parte dell’emigrazione ebraica dell’epoca, e la Palestina, sentita come “la nostra patria storica dacchè abbiamo memoria” (sempre Herzl); a queste si aggiunse l’Uganda negli anni successivi. Fu l’Organizzazione Sionista creata dallo stesso Herzl a decretare, nel 1897, la scelta della Palestina: “Il sionismo persegue per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita”. C’è un notevole slancio idealistico in questa presa di posizione, c’è la volontà di costruire una nazione moderna basata sulle idee nuove ottocentesche: all’interno dell’Organizzazione si incontravano ferventi liberali (che facevano capo allo stesso Herzl) e socialisti (all’origine del movimento dei kibbutz). La convinzione condivisa era che il grado di sviluppo del nuovo stato avrebbe finito per mettere d’accordo tutte le altre nazioni coinvolte:

Se Sua Maestà il Sultano fosse dell’idea di concerderci la Palestina potremmo in cambio impegnarci a sistemare completamente la situazione finanziaria della Turchia. Lì potremmo far parte di un baluardo dell’Europa contro l’Asia, un avamposto della civilizzazione contro la barbarie.

Theodor Herzl (1860-1904)

 

Le popolazioni locali non vengono neppure menzionate, ma il giudizio implicito è chiaro: barbari. Ancora una volta: se a noi questa mentalità coloniale può sembrare ripugnante, non va dimenticato che all’epoca quella era la mentalità effettivamente dominante nella politica occidentale. In ogni caso l’Organizzazione Sionista continuò ad organizzare l’emigrazione. Alcuni insediamenti erano già nati, altri sarebbero stati costruiti di lì a poco, in seguito alle ondate migratorie del primo decennio del Novecento (soprattutto dalla Russia, teatro di violenti pogrom). Intanto l’Organizzazione cominciava a funzionare da vero organo politico degli ebrei in Europa: Herzl, eletto presidente, fece numerosi tentativi di ottenere l’appoggio dei governanti delle maggiori nazioni occidentali. Non avrebbe avuto successo, ma solo nell’immediato.

Nel 1917 il Ministro degli Esteri britannico, sir Arthur James Balfour, dichiarava con una nota ufficiale destinata a Lord Rothschild (uno dei personaggi di spicco del movimento sionista) che “Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo”. L’importanza di questa dichiarazione è chiara se si considera che la Gran Bretagna si era già accordata con la Francia (accordi di Sykes-Picot, 1916) per ottenere un protettorato in Palestina. Sulle cause storiche della dichiarazione c’è gran confusione: si va da bizzarre storie secondo cui la dichiarazione fu ricompensa per l’invenzione di un nuovo tipo di esplosivo da parte di alcuni ebrei (!) a teorie decisamente più sobrie che mettono in luce la necessità da parte britannica di ingraziarsi i sionisti statunitensi in vista di un ingresso nella guerra mondiale. Ad ogni modo, con la Dichiarazione Balfour inizia la storia “moderna” della Palestina dilaniata: gli insediamenti ebraici avrebbero cominciato a crescere (soprattutto con le persecuzioni nazifasciste a partire dagli anni Trenta), ponendo definitivamente -agli arabi e agli ebrei, ma anche alle potenze occidentali-  il problema della convivenza.

N.