La speranza equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi.

Un po’ di preistoria. La nascita del sionismo

Posted: Luglio 19th, 2013 | Author: | Filed under: Palestina per Principianti, Storia | Tags: , , , , | Commenti disabilitati su Un po’ di preistoria. La nascita del sionismo

In principio era l’apartheid. La parola sarebbe nata solo nel 1917, proprio alla fine di questa storia, ma descrive perfettamente la storia degli ebrei in Europa. Storie di esclusione, di ghetti, ma anche di persecuzioni, di pogrom. Storie lunghe millenni. Quando il padre del sionismo moderno, Theodor Herzl, scrisse Lo stato ebraico (1896), il punto di partenza non poteva che essere questo:

Nessuno può negare la gravità della questione degli Ebrei. Dovunque vivano in numero percettibile, essi vengono più o meno perseguitati. […] Attacchi nei Parlamenti, nelle assemblee, sulla stampa, dal pulpito, sulla strada, in viaggio -ad esempio, l’esclusione da alcuni hotel- addirittura nei luoghi ricreativi diventano ogni giorno più numerosi. Le forme di persecuzione variano secondo i paesi e gli ambiti sociali nei quali avvengono.         [traduzione mia]

A cavallo tra Otto e Novecento, l’Europa era ferventemente positivista, liberale, industrializzata. L’antisemitismo, la vergognosa propagine di medioevo che si trascinava persino nelle nazioni illuminate (basti pensare all’affaire Dreyfus), sembrava eliminabile (per quanto con ogni proabilità non rappresentasse un problema per i governanti di allora). Era il periodo d’oro dell’impero britannico, quello in cui una grossa parte dell’opinione pubblica si appellava alla missione civilizzatrice occidentale nel “terzo mondo”. Non è così strano che la soluzione (almeno teorica) venne trovata all’interno di ciò che più di tutto muoveva la politica, l’ideologia e le speranze dei grandi stati europei: il colonialismo. La civiltà si muoveva, o così pareva, al ritmo dei flussi di materie prime che arrivavano dall’Africa, delle ferrovie costruite in India. La nascita di un impero sembrava naturale, spontanea, giusta. Almeno nei salotti dell’Inghilterra vittoriana.

Questo clima culturale non poteva non influenzare gli intellettuali che diedero vita al sionismo. L’idea di Herzl riflette (in maniera senz’altro più ingenua) lo stesso ottimismo: le persecuzioni contro gli ebrei si sarebbero risolte con l’emigrazione di questi ultimi in una terra che sarebbe diventata lo stato ebraico:

L’intero piano è nella sua essenza perfettamente semplice, come dev’essere necessariamente se deve avvenire con la comprensione di tutti. Garantiteci la sovranità su una porzione del globo abbastanza grande da soddisfare i giusti requisiti di una nazione; al resto penseremo noi.

Le due “porzioni di globo” più quotate erano allora l’Argentina, meta di gran parte dell’emigrazione ebraica dell’epoca, e la Palestina, sentita come “la nostra patria storica dacchè abbiamo memoria” (sempre Herzl); a queste si aggiunse l’Uganda negli anni successivi. Fu l’Organizzazione Sionista creata dallo stesso Herzl a decretare, nel 1897, la scelta della Palestina: “Il sionismo persegue per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita”. C’è un notevole slancio idealistico in questa presa di posizione, c’è la volontà di costruire una nazione moderna basata sulle idee nuove ottocentesche: all’interno dell’Organizzazione si incontravano ferventi liberali (che facevano capo allo stesso Herzl) e socialisti (all’origine del movimento dei kibbutz). La convinzione condivisa era che il grado di sviluppo del nuovo stato avrebbe finito per mettere d’accordo tutte le altre nazioni coinvolte:

Se Sua Maestà il Sultano fosse dell’idea di concerderci la Palestina potremmo in cambio impegnarci a sistemare completamente la situazione finanziaria della Turchia. Lì potremmo far parte di un baluardo dell’Europa contro l’Asia, un avamposto della civilizzazione contro la barbarie.

Theodor Herzl (1860-1904)

 

Le popolazioni locali non vengono neppure menzionate, ma il giudizio implicito è chiaro: barbari. Ancora una volta: se a noi questa mentalità coloniale può sembrare ripugnante, non va dimenticato che all’epoca quella era la mentalità effettivamente dominante nella politica occidentale. In ogni caso l’Organizzazione Sionista continuò ad organizzare l’emigrazione. Alcuni insediamenti erano già nati, altri sarebbero stati costruiti di lì a poco, in seguito alle ondate migratorie del primo decennio del Novecento (soprattutto dalla Russia, teatro di violenti pogrom). Intanto l’Organizzazione cominciava a funzionare da vero organo politico degli ebrei in Europa: Herzl, eletto presidente, fece numerosi tentativi di ottenere l’appoggio dei governanti delle maggiori nazioni occidentali. Non avrebbe avuto successo, ma solo nell’immediato.

Nel 1917 il Ministro degli Esteri britannico, sir Arthur James Balfour, dichiarava con una nota ufficiale destinata a Lord Rothschild (uno dei personaggi di spicco del movimento sionista) che “Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo”. L’importanza di questa dichiarazione è chiara se si considera che la Gran Bretagna si era già accordata con la Francia (accordi di Sykes-Picot, 1916) per ottenere un protettorato in Palestina. Sulle cause storiche della dichiarazione c’è gran confusione: si va da bizzarre storie secondo cui la dichiarazione fu ricompensa per l’invenzione di un nuovo tipo di esplosivo da parte di alcuni ebrei (!) a teorie decisamente più sobrie che mettono in luce la necessità da parte britannica di ingraziarsi i sionisti statunitensi in vista di un ingresso nella guerra mondiale. Ad ogni modo, con la Dichiarazione Balfour inizia la storia “moderna” della Palestina dilaniata: gli insediamenti ebraici avrebbero cominciato a crescere (soprattutto con le persecuzioni nazifasciste a partire dagli anni Trenta), ponendo definitivamente -agli arabi e agli ebrei, ma anche alle potenze occidentali-  il problema della convivenza.

N.


Riflessi e riflessioni

Posted: Febbraio 13th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , , | Commenti disabilitati su Riflessi e riflessioni

Mi è capitato per caso tra le mani un libricino di un’ottantina di pagine; sulla copertina rossa, ancora luminosa, il titolo a caratteri neri, Documenti della rivoluzione palestinese (a cura di E. Polizzi, Edizioni Sapere, 1970); tra le pagine, ormai ingiallite, una raccolta di documenti dagli uffici di Al Fatah. Tra questi, “Gli Ebrei e i Palestinesi” (aprile 1970), tentativo di descrivere l’immagine con la quale i due popoli si sono rappresentati nel tempo e tutt’ora si rappresentano.

Premesse.

1. I documenti sono stati redatti da Al Fatah, quindi scritti “da mano” palestinese. Necessariamente e in modo indubbio, presentano una visione di parte, benché questa sia, all’interno del documento, moderata e, per quanto possibile, oggettiva.
2. Utilizzando il termine “ebreo”, non si vuole cadere in generalizzazioni o stereotipo alcuno. Dal documento stesso si evince un’attenzione particolare alla distinzione tra giudaismo e sionismo. Il termine sarà, nei casi equivoci, di volta in volta, specificato.

Procediamo con ordine (cronologico).

La frase “una terra senza popolo per un popolo senza terra” esprime la posizione iniziale dei sionisti nei confronti dei Palestinesi: essi non esistono, ma “esiste un paese che, sembra, si chiami Palestina, un paese senza popolo, e, d’altra parte, esiste un popolo ebreo che non ha un paese. Cosa resta da fare se non unire il popolo al suo paese?” (C. Weizmann). Pagine e pagine furono scritte sul nascituro stato d’Israele, non una parola sugli arabi palestinesi.

Benché “psicologicamente inesistenti”, i palestinesi erano un popolo in continua crescita in un paese prospero. Ecco che, dunque, la posizione sionista divenne ben presto insostenibile. Se l’esistenza degli arabi non poteva essere negata, non restava altro da fare che denigrare, negar loro la possibilità di avere diritti politici (come espresso dalla dichiarazione Balfour), ridurli al rango di beduini,  deturpatori del paese dove scorre latte e miele. I leader palestinesi erano, secondo la definizione di M. Samuel, “un’armata di pigri, di artisti falliti, di ciarlatani da caffè”. L’ebreo, nell’ottica sionista, era dunque una benedizione, spinto in Palestina da una missione civilizzatrice.

La realtà dei fatti era, però, da manipolarsi: ecco che, nella spiegazione fittizia sviluppata dal sionismo, i palestinesi avevano venduto le terre agli ebrei, volontariamente o indotti dai loro capi; erano loro a non voler convivere pacificamente con gli Europei portatori della civiltà; si lamentavano della vita nei campi profughi, quando “prima vivevano sotto una tenda, ora vivono ancora sotto una tenda!”.

Al sentimento anti-arabo, si oppose, come riflesso nello specchio, il sentimento anti-ebraico nutrito dai palestinesi: l’occupazione sionista, istilla l’odio nei confronti del “giudeo oppressore”, senza distinzione alcuna tra giudeo e sionista. Ma è l’idea della rivoluzione, il sogno della sua realizzazione, a far nascere un sentimento nuovo: i palestinesi non hanno né odio né amore per gli ebrei in quanto tale, riportando l’altro alla sua dimensione umana, spogliandolo del manto ideologico e della figura stereotipata di nemico. L’obiettivo prefissato da raggiungersi con la rivoluzione era ed è, infatti, la creazione di una Palestina democratica, in cui le differenti confessioni religiose convivano. Ecco, dunque, la volontà di aprirsi al dialogo con gli ebrei per “una nuova Palestina che non sarà fondata sulla frode, il razzismo o la discriminazione, ma sulla cooperazione e la tolleranza”.

E oggi?
Oggi, questo dialogo continua. Dialogo sussurrato, sottovoce.

Ma continua anche il tentativo di negare reciprocamente l’esistenza dell’altro. Persiste la volontà sionista di costituire uno stato ebraico, che non lasci spazio ad altre etnie o confessioni religiose. Come nelle scuole ebraiche ai bambini era insegnata “la stupidità congenita degli arabi” (dato evidenziato nel 1923 dall’antropologo Goldenweiser), così gli odierni libri di testo israeliani sono improntati su un sentimento anti-arabo. Come, nella realtà falsata dai sionisti, i Palestinesi avevano volontariamente venduto le terre agli ebrei, così oggi si ritiene la Nakba, l’esilio forzato dei Palestinesi nel 1948, una migrazione volontaria.

Dialogo spesso non udito.

Dalla prospettiva palestinese, è taciuta l’esistenza di Israele, negata la sua legittima esistenza. “Fino a quando i palestinesi vivranno sotto l’occupazione israeliana – ha commentato Jihad Zarkarneh, responsabile della selezione dei libri di scuola per il Ministero dell’Educazione dell’ANP – i nostri libri non potranno mostrare Israele sotto una luce positiva”.

Dialogo spesso rifiutato.

Absa


Coloni Inconscienti. Di videogiochi e strette di mano.

Posted: Gennaio 21st, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , , , | Commenti disabilitati su Coloni Inconscienti. Di videogiochi e strette di mano.

Il brig. gen. Topolansky (IDF) e, a destra, il gen. Vecciarelli (esercito italiano). Potete ridere.

Tutto questo parlare di muri, bombardamenti, guardie e colonie impone di ricordare un rischio. Puoi vederti scorrere davanti tutto il male del mondo senza sentirtente responsabile. Così, il massimo che puoi provare è una sincera indignazione vittoriana (“Oh, my God, poveretti!”). Con questo meraviglioso sentimento, i vittoriani avevano conquistato un buon terzo del globo terracqueo in colonie.  “Molti dei coloni non sanno neanche di vivere in una colonia, non si rendono conto che ci sono gli arabi, sono qui per motivi economici” dice una donna intervistata in The Iron Wall (il documentario recensito dalla nostra Absa). Le immagini si incidono sempre meglio delle parole. Però anche certe parole… “Come essere in un videogioco”. Ecco. Un gioco. Responsabilità, non ne abbiamo. Dici: siamo lontani. No. No.

Li vedete i due simpatici tipi qui sopra? Guardate le bandiere. Italiana e israeliana. Desert Dusk: esercitazione militare congiunta in territorio palestinese. Il 17 maggio 2005 è stato ratificato l’ultimo trattato (qui il testo) di partnership militare tra le due nazioni. Lo avevano stipulato a Parigi, due anni prima, Silvio Berlusconi e Ariel Sharon (che avevano colto l’occasione per annunciare lo stanziamento di 181 milioni di dollari per “lo sviluppo di un nuovo sistema di guerra elettronica progettato per inabilitare i velivoli nemici”) . L’Italia ha iniziato una collaborazione a lungo termine con uno degli eserciti più potenti e aggressivi del mondo. Ci esercitiamo insieme e ci scambiamo allegramente armi. L’Alenia Aermacchi, ad esempio, è un’ anzienda italiana a partecipazione statale (tradotto: i contributi dei cittadini tra le altre cose finanziano anche questa azienda). Produce caccia F-346 che, in base all’accordo citato, saranno venduti  a Israele. Dici: sono ragioni economiche. Come per i coloni.  Dici: si, ma noi abbiamo una cultura diversa, noi siamo aperti, liberali, non abbiamo mai ucciso nessuno.

C’è un monumento, nella campagna laziale, ad Affile. E’ dedicato ad un tipo come quelli in fotografia. Si chiamava Rodolfo Graziani, criminale di guerra. Italiano. Uno dei gerarchi fascisti più in alto,”vicerè” d’Etiopia. Dopo una guerra di conquista tra le più sanguinose della storia (una delle prime in cui furono utilizzati i gas), cominciò a reprimere paranoicamente ogni tentativo all’autodeterminazione da parte etiope.  Il 19 febbraio del 1937 fu obiettivo di un attentato fallito. Da allora cominciò ad internare a migliaia i locali dietro mura d’acciaio. Perchè forse non ce ne ricordiamo più, ma i campi di concentramento li hanno costruiti anche gli italiani. No, non abbiamo “soltanto” aiutato i nazisti. Li abbiamo proprio costruiti, muri, filo spinato e morti a centinaia. In Africa. E avevamo già dei generali che si stringevano mani. E si chiamava colonialismo. Costruivamo colonie. Per motivi economici.  Un archivio storico sui campi italiani è stato messo online in questi giorni. Questa è la testimonianza di un internato, imprigionato torturato, a Nocra, in Eritrea.

Il sacrario dedicato a Graziani costruito nell’autunno scorso ad Affile (Roma), su finanziamento della Regione. Si, sopra c’è scritto “Patria” e “Onore”.

Dici: questa è storia, con la Palestina non c’entra nulla, non è attualità.

The Iron Wall è anche il titolo di un articolo di Vladimir Jabotinskij. Si, quello citato all’inizio del documentario. “I miei lettori hanno certo un’idea generale della storia della colonizzazione in altri paesi. Provino a considerare tutti i precedenti storici di cui sono a conoscenza, e vedano se riescono a trovare un solo caso di colonizzazione portato avanti con il favore della popolazione locale. Un simile precedente non esiste. […] Gli arabi provano per la Palestina in ultima istanza lo stesso istintivo, geloso amore dei vecchi Aztechi per il Messico, dei Sioux per le loro vaste praterie. […] La colonizzazione può avere un solo scopo, e gli arabi palestinesi non possono accettare questo scopo”*. E’ la stessa storia. Esattamente quello che aveva realizzato Graziani. I primi sionisti studiavano in Italia le strategie di colonizzazione: lo stesso Jabotinskij ha fondato a Civitavecchia la marina militare israeliana, con l’appoggio di Mussolini. Strette di mano che si succedono uguali. E non sono passati secoli, non sono storie diverse. Non c’è attualità, al di fuori di questo. Conoscerla vuol dire assumersi le proprie responsabilità.

*Traduzione mia

Neno