Posted: Luglio 3rd, 2013 | Author: Neno | Filed under: General | Tags: colonialismo, kerry, palestina, turismo, usa | Commenti disabilitati su Breve storia di un villaggio turistico
Sono un po’ stufo di scrivere articoli sul colonialismo israelo-statunitense in Palestina. Né dubito che voi siate stanchi di sorbirvi riflessioni pedanti sulla questione. Poi però uno legge che gli USA hanno stanziato quattro miliardi di dollari in investimenti privati per sviluppare l’economia palestinese. In particolare il turismo. Immensa gioia di grandi industriali di ambo le parti (Israele e Palestina, intendo). E allora forse non sono io che mi ripeto, è la storia (e la sua narrazione) che cambia ben poco. Perché questo stesso racconto lo abbiamo sentito un miliardo di volte. È il racconto di come un paese da terra occupata (o tiranneggiata) che era compie la metamorfosi che lo renderà – per sempre? – un villaggio turistico. Suona più o meno così:
Sempre le solite caricature
C’erano una volta un paese prospero e felice ed un paese sottosviluppato. Il re del paese prospero e felice ogni mattina si affacciava alla finestra, guardava la sua terra stendersi davanti a lui (ma in realtà guardava solo il parco della reggia, chè il paese prospero e felice era un moderno stato-nazione di grande estensione), e rientrava fiero di sè a leggere i giornali (ma in realtà leggeva solo qualche giornale), a partecipare a riunioni dell’Unione delle Nazioni Prospere e Felici (che poi unite non lo erano per niente) e a portare a cena sua moglie (la quale, a ben vedere, non lo amava per nulla). Il re del paese sottosviluppato, invece, era uno stronzo. Non si affacciava alla finestra per paura di ricevere una revolverata dai suoi sudditi. I quali sudditi erano piuttosto irritati non solo perchè lavoravano intere giornate sotto il sole in cambio di un paio di monete, ma anche perchè il paese prospero e felice confinante (che, guarda un po’, era proprio quello del re di prima) aveva sottratto loro circa due terzi del territorio, costruendo ovunque palazzi prosperi e felici. Insomma, non avevano più terra, cibo e acqua: il re del paese sottosviluppato aveva una gran voglia di abdicare e lasciare che prosperità e felicità conquistassero l’intero paese. I suoi sudditi non parevano d’accordo, e opponevano strane riflessioni su “libertà”, “autonomia”, “abbattimentodelleistituzioniborghesi” (questo solo alcuni).
La situazione divenne insostenibile. Tutti i politici dei paesi prosperi e felici visitavano il paese sottosviluppato per dargli sostegno nella sua agonia. La sera, nella reggia del re povero, s’incontravano con gli imprenditori per discutere sul futuro della piccola nazione. Era imprescindibile che il paese agonizzante diventasse, in questa o nella prossima vita, prospero e felice. I sudditi però resistevano. La questione divenne così importante che fu portata davanti all’Imperatore Sommamente Prospero di tutte le Nazioni Prospere. Quest’ultimo ascoltò il re felice ed il re infelice (o forse delegò questo compito a qualcun altro), pensò a lungo (ma forse rimase semplicemente zitto) e infine annunciò le sue conclusioni: “Potremmo varare un piano di aiuti da quattro miliardi di dobloni al paese povero. Così non ci sarà più bisogno che l’altro paese costruisca i palazzi, li costruirano loro stessi, proprio loro che tengono tanto all’indipendenza” (ma alcuni dicono che non parlò affatto).
L’Imperatore e i due re (si capisce quale sia quello prospero e felice)
Il piano fu varato, per la gioia dei grandi imprenditori (quelli dei due paesi ormai in pace e – soprattutto – quelli del paese dell’Imperatore). In breve tempo, il paese ormai-non-più-sottosviluppato fu pieno di palazzi. Il re povero poté finalmente affacciarsi alla finestra e vedere soltanto il parco della sua reggia. Finché un giorno un ambasciatore imperiale fece presente al re che il suo paese era indebitato con l’Imperatore di quattro miliardi di dobloni. Il re, a ben vedere, non ne aveva. Siccome però il paese non produceva nulla che interessasse allo stato imperiale ma aveva un paesaggio molto pittoresco, la soluzione fu presto trovata: si smantellarono le fabbriche, si requisirono le terre, e si cominciò a costruire un meraviglioso, immenso villaggio turistico. Ora i sudditi dell’Imperatore potevano rilassarsi all’ombra di un albero, sulle colline del paese che era stato sottosviluppato. I soldi che pagavano venivano usati per ripagare il debito. Misteriosamente, la piccola nazione non si arricchì mai. Il re, dal canto suo, stava piuttosto bene, e così i suoi imprenditori.
Poi, un giorno, il piccolo paese sparì. Alcuni dicono che fu conquistato da un altro paese, forse proprio quello dell’altro re (quello non amato dalla moglie), altri ancora dicono che semplicemente implose, così, per caso. Infine, alcuni folli affermano che non sia scomparso. Semplicemente, dicono, ne scomparve il re.
N.
Ma l’Egitto è dove c’è Sharm el-Sheikh?
Posted: Aprile 5th, 2013 | Author: Neno | Filed under: General | Tags: anp, BTS, colonie, israele, obama, palestina, solopergentecollusa, usa | Commenti disabilitati su Favole e testimonianze
[Avevo intenzione di scrivere un post che facesse un’analisi critica della visita di Obama ai Territori Occupati. Ho sfogliato le pagine online dei maggiori quotidiani italiani, ho guardato tutti i video che mi capitavano sottomano. Mi sono trovato davanti una narrazione emotiva, favolistica, in cui le parole passavano quasi in secondo piano. Nel tentativo (spero non troppo demagogico) di evidenziare il vuoto e l’ipocrisia di un simile racconto, ho pensato di affiancare a questa narrazione “ufficiale” (e totalmente acritica), alcuni passi dai racconti “non autorizzati” di soldati israeliani, raccolti nel volume “BTS-Breaking The Silence” (alla cui traduzione ha collaborato anche la nostra Absa). Le parti in corsivo sono tratte dalle testimonianze rispettivamente n. 42, 46 e 22 della raccolta.]
Barack Obama lascia il Convention Center di Gerusalemme dopo il suo discorso del 21 marzo scorso. [Foto: Electronic Intifada]
L’aereo che atterra, la passerella, l’uomo in giacca e cravatta che si affanna perché tutti i dettagli siano perfetti. Gli squilli di tromba, l’apparizione tanto attesa. Eccolo, il Presidente. Un sorriso enorme e rassicurante, pacche sulle spalle. Le autorità israeliane sono più impacciate, ma tutto sommato soddisfatte. Bandiere americane e israeliane, dovunque. La mano tesa ai militari gallonati e impettiti.
Un altro episodio ha avuto luogo con una pattuglia in un quartiere parallelo a quello di Harsina, a nord di Givat Ha’avot. Abbiamo perlustrato la zona e i bambini ci gridavano. Alcuni dei soldati, tra cui l’ufficiale, erano sensibili a questo. Ho discusso con loro, ho detto loro di lasciare che i bambini gridassero. Hanno detto: “No, se gridano ora, domani lanceranno le pietre. Se si sentono liberi, faranno ciò che vogliono e finiranno per spararci.”
Le parole sono tante, talmente tante che i giornali sembrano darle per scontate. “Voglio rispondere ad una domanda che a volte mi viene posta riguardo al nostro appoggio a Israele: perché? La risposta è semplice. Perché abbiamo avuto una storia comune: siamo gente libera nella nostra terra. (…) Perché accogliamo migranti da ogni angolo del mondo che danno nuova linfa alle nostre società. (…) Insomma, siamo schierati insieme perchè siamo democrazie. Siamo schierati insieme perchè questo ci rende più prosperi: i nostri commerci e i nostri investimenti sono vantaggiosi per entrambi i nostri popoli”. Poi il discorso davanti ai ragazzi dell’università di Gerusalemme. L’atteggiamento cambia un pò. “Guardate il mondo con gli occhi dei palestinesi”. Sorrisi, applausi, scrosci di democrazia.
Eravamo lì da 20 minuti, erano in fila davanti alla casa, noi stavamo puntando i nostri fucili contro di loro, di fronte ad un gruppo di ragazzini tremanti, che si sarebbero pisciati nei pantaloni a momenti, e il comandante grida: “Chi è?” e afferra il più vecchio. “Dimmi chi è, e non finirai nei guai, non ti preoccupare, lo prendiamo e lo riportiamo”. Abbiamo preso tre bambini . La madre piangeva, donne erano tutte in lacrime, i ragazzi ammanettati, portati nella jeep saltava, spaventati. Cerco solo di pensare a cosa devono aver provato, come ci si sente ad essere portati in una jeep dell’esercito.
La sera, cena offerta da Shimon Peres, ma il padrone di casa passa in secondo piano mentre tutti i riflettori sono puntati sulla presenza di Yitish Aynaw, novella Cenerentola strappata ad un negozio di parrucchiera dal concorso di Miss Israele. Il tutto dopo aver prestato servizio nell’esercito israeliano, ovviamente. “Obama è la prova evidente che ogni persona può raggiungere la vetta” dichiara ai giornali. É originaria dell’Etiopia, ma non si sente discriminata, perché “ogni persona”, grazie alle sue capacità, può farcela, può “raggiungere la vetta”, l’origine non conta. Eterni sogni liberisti, israelian dream.
La madre di Muayad Nazih Ghazawneh, ucciso dai soldati israeliani il 15 marzo a Ramallah [E.I.]
Obama incontra Yitish Aynaw
Un uomo più anziano che era un riservista, afferrò le donne e le gettò a terra, afferrò telecamere della stampa e le gettò nelle fogne, le spezzò, e questa era una vera e propria provocazione. Ha toccato una donna, e subito dei ragazzi assaltarono per proteggerla, così tutti i soldati li assaltarono. In ogni caso, si scatenò l’inferno solo a causa di questo riservista, che ha iniziato tutto perché è arrivato e non ha nemmeno aspettato.. Gli fu detto che doveva disperderli così ha iniziato a colpire, a prendere a calci, e lanciare qualsiasi cosa si muovesse. Qualsiasi palestinese, qualsiasi cosa. La stampa non lo interessava, andò semplicemente in delirio con loro.
Obama ha anche visitato anche i vertici dell’ANP a Ramallah. Questa parte è passata in secondo piano. Forse si adattava troppo male al resto della favola: arriva in macchina, si ferma una trentina di minuti, giusto il tempo per qualche appello alla “sicurezza” (degli israeliani, ovvio), ma senza dare uno sguardo alle colonie israeliane, né al muro (nonostante l’ironia di Alaa Shiham, cantante palestinese). Nei 26 minuti di permanenza nei Territori Occupati, il presidente americano è comunque riuscito a scatenare la rabbia dei palestinesi con affermazioni piuttosto lapidarie sulle colonie. Intanto, l’IDF reprimeva con la forza le manifestazioni di protesta che si accendevano in tutta la West Bank. Le armi che usava erano con ogni probabilità armi americane, comprate con i fondi che gli USA riversano ogni anno nelle casse israeliane in nome del diritto alla difesa. Decisamente, nessuna favola.
Coloni israeliani ringraziano Obama per il supporto alle colonie (e al colonialismo) [Electronic Intifada]
Qui la pagina online (in inglese) di Breaking the Silence
Neno
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