La speranza equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi.

Dal piccolo vocabolario della lingua affettiva

Posted: Aprile 7th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , , | Commenti disabilitati su Dal piccolo vocabolario della lingua affettiva

[Soundtrack – Glósóli]

Terra [ter-ra] s.f. – Tra i vari significati, materiale che ricopre la superficie terrestre, terriccio.
In tutte le definizioni di questo vocabolo in cui mi sono imbattuta compare, tra le diverse voci, quella di terreno coltivabile o materiale che contenga gli elementi necessari alla nutrizione delle piante. Un po’ come a dire: dove è terra, lì sono le piante. [Vedi anche alla voce “olivo”.] Quindi, lì è la vita stessa. Come se nella terra fosse intrinseco un messaggio vitale, come se la terra stessa fosse la vita. Fondamentale è, dunque, attaccarsi alla terra, nella sua figura di Madre Terra. Essenziale risulta difenderla, con le proprie forze e con tutti i mezzi disponibili. Ogni anno, il 30 marzo si celebra in Palestina la Giornata della Terra: “il 30 marzo 1976 sei giovani palestinesi vennero uccisi dall’esercito israeliano mentre cercavano di salvare le loro terre dalla confisca”.
Espressioni idiomatiche: T. Promessa, T. Santa.; fare t. bruciata; t. di nessunoessere o sentirsi a t.; questa cosa non sta né in cielo né in t. Derivati: territorio, conterraneo.

terra

Collina [Col-li-na] s.f. – Nel caso specifico, la collina dei ciliegi.
Dal comunicato stampa di Operazione Colomba del 16 marzo 2013:

At-Tuwani – La mattina del 15 marzo 2013 la polizia israeliana ha arrestato tre minori sulla collina di Khelly, vicino al villaggio di At-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Gli agenti sono intervenuti dopo che due coloni di Ma’on hanno accusato i ragazzi di aver danneggiato il recinto di un campo di ciliegi. I ragazzi palestinesi stavano pascolando le loro greggi sulla collina di Khelly, vicino a un campo di ciliegi nelle vicinanze dell’insediamento di Ma’on. Un internazionale, che accompagnava i ragazzi palestinesi durante l’incidente, afferma che loro non hanno compiuto il danneggiamento. Dall’inizio nel 2013, i coloni di Ma’on, spesso in coordinamento con l’esercito israeliano, hanno scacciato diciassette volte i pastori palestinesi dalla valle e dalla collina di Khelly. Queste terre sono proprietà privata palestinese e l’amministrazione civile dell’esercito israeliano ha dato ai palestinesi il permesso di lavorarla. Inoltre, anche la terra sulla quale il recinto è stato costruito è di proprietà Palestinese. I coloni di Ma’on ne hanno preso possesso illegalmente, impedendo ai palestinesi di lavorare quel terreno.

Ricorrenze letterarie: Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli (C. Pavese, La casa in c.).

collina

Olivo [o-li-vo] s.m. – “Il tronco è contorto; le foglie ovali, lucide e di color verde scuro sulla pagina superiore, biancastre inferiormente; i fiori sono piccoli, bianco-verdastri; il frutto è di grandezza variabile, per lo più ovale, di colore prima verdastro e poi nero-violaceo a maturità”. (*) Poi, d’improvviso, di questi colori non resta traccia. Nel buio della notte, restano solo le fiamme. Credo sia questa una delle immagini che più mi abbia colpito guardando 5 Broken Cameras: olivi bruciare. Carcasse al mattino, come animali morti nell’arsura di un neonato deserto. Oppure, olivi tagliati, le loro braccia, una volta al cielo, ora lasciate a seccare a terra. Perchè proprio gli olivi? L’olivo è la pianta della vita, nel suo senso più stretto di sopravvivenza. Abbattere, bruciare un olivo è un simbolo, chiaro, quasi elementare. Significa estirpare le radici che affondano in profondità nel suolo, fare tutto il possibile perchè non rimangano nel cuore della terra.
Espressioni idiomatiche: offrire, portare un ramoscello di o. a qualcuno, fargli proposte di pace.

olivre

 * Da un qualsiasi dizionario enciclopedico; in questo caso, Dizionario enciclopedico universale, Sansoni Editore (1995).

Favole e testimonianze

Posted: Aprile 5th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , , , , | Commenti disabilitati su Favole e testimonianze

[Avevo intenzione di scrivere un post che facesse un’analisi critica della visita di Obama ai Territori Occupati. Ho sfogliato le pagine online dei maggiori quotidiani italiani, ho guardato tutti i video che mi capitavano sottomano. Mi sono trovato davanti una narrazione emotiva, favolistica, in cui le parole passavano quasi in secondo piano. Nel tentativo (spero non troppo demagogico) di evidenziare il vuoto e l’ipocrisia di un simile racconto, ho pensato di affiancare a questa narrazione “ufficiale” (e totalmente acritica), alcuni passi dai racconti “non autorizzati” di soldati israeliani, raccolti nel volume “BTS-Breaking The Silence” (alla cui traduzione ha collaborato anche la nostra Absa). Le parti in corsivo sono tratte dalle testimonianze rispettivamente n. 42, 46 e 22 della raccolta.]

Barack Obama lascia il Convention Center di Gerusalemme dopo il suo discorso del 21 marzo scorso. [Foto: Electronic Intifada]

L’aereo che atterra, la passerella, l’uomo in giacca e cravatta che si affanna perché tutti i dettagli siano perfetti. Gli squilli di tromba, l’apparizione tanto attesa. Eccolo, il Presidente. Un sorriso enorme e rassicurante, pacche sulle spalle. Le autorità israeliane sono più impacciate, ma tutto sommato soddisfatte. Bandiere americane e israeliane, dovunque. La mano tesa ai militari gallonati e impettiti.

Un altro episodio ha avuto luogo con una pattuglia in un quartiere parallelo a quello di Harsina, a nord di Givat Ha’avot. Abbiamo perlustrato la zona e i bambini ci gridavano. Alcuni dei soldati, tra cui l’ufficiale, erano sensibili a questo. Ho discusso con loro, ho detto loro di lasciare che i bambini gridassero. Hanno detto: “No, se gridano ora, domani lanceranno le pietre. Se si sentono liberi, faranno ciò che vogliono e finiranno per spararci.”

Le parole sono tante, talmente tante che i giornali sembrano darle per scontate. “Voglio rispondere ad una domanda che a volte mi viene posta riguardo al nostro appoggio a Israele: perché? La risposta è semplice. Perché abbiamo avuto una storia comune: siamo gente libera nella nostra terra. (…) Perché accogliamo migranti da ogni angolo del mondo che danno nuova linfa alle nostre società. (…) Insomma, siamo schierati insieme perchè siamo democrazie. Siamo schierati insieme perchè questo ci rende più prosperi: i nostri commerci e i nostri investimenti sono vantaggiosi per entrambi i nostri popoli”. Poi il discorso davanti ai ragazzi dell’università di Gerusalemme. L’atteggiamento cambia un pò. “Guardate il mondo con gli occhi dei palestinesi”. Sorrisi, applausi, scrosci di democrazia.

Eravamo lì da 20 minuti, erano in fila davanti alla casa, noi stavamo puntando i nostri fucili contro di loro, di fronte ad un gruppo di ragazzini tremanti, che si sarebbero pisciati nei pantaloni a momenti, e il comandante grida: “Chi è?” e afferra il più vecchio. “Dimmi chi è, e non finirai nei guai, non ti preoccupare, lo prendiamo e lo riportiamo”. Abbiamo preso tre bambini . La madre piangeva, donne erano tutte in lacrime, i ragazzi ammanettati, portati nella jeep saltava, spaventati. Cerco solo di pensare a cosa devono aver provato, come ci si sente ad essere portati in una jeep dell’esercito.

La sera, cena offerta da Shimon Peres, ma il padrone di casa passa in secondo piano mentre tutti i riflettori sono puntati sulla presenza di Yitish Aynaw, novella Cenerentola strappata ad un negozio di parrucchiera dal concorso di Miss Israele. Il tutto dopo aver prestato servizio nell’esercito israeliano, ovviamente. “Obama è la prova evidente che ogni persona può raggiungere  la vetta” dichiara ai giornali.  É originaria dell’Etiopia, ma non si sente discriminata, perché “ogni persona”, grazie alle sue capacità, può farcela, può “raggiungere la vetta”, l’origine non conta. Eterni sogni liberisti, israelian dream.

La madre di Muayad Nazih Ghazawneh, ucciso dai soldati israeliani il 15 marzo a Ramallah [E.I.]

Obama incontra Yitish Aynaw

Un uomo più anziano che era un riservista, afferrò le donne e le gettò a terra, afferrò telecamere della stampa e le gettò nelle fogne, le spezzò, e questa era una vera e propria provocazione. Ha toccato una donna, e subito dei ragazzi assaltarono per proteggerla, così tutti i soldati li assaltarono. In ogni caso, si scatenò l’inferno solo a causa di questo riservista, che ha iniziato tutto perché è arrivato e non ha nemmeno aspettato.. Gli fu detto che doveva disperderli così ha iniziato a colpire, a prendere a calci, e lanciare qualsiasi cosa si muovesse. Qualsiasi palestinese, qualsiasi cosa. La stampa non lo interessava, andò semplicemente in delirio con loro.

Obama ha anche visitato anche i vertici dell’ANP  a Ramallah. Questa parte è passata in secondo piano. Forse si adattava troppo male al resto della favola: arriva in macchina, si ferma una trentina di minuti, giusto il tempo per qualche appello alla “sicurezza” (degli israeliani, ovvio), ma senza dare uno sguardo alle colonie israeliane, né al muro (nonostante l’ironia di Alaa Shiham, cantante palestinese). Nei 26 minuti di permanenza nei Territori Occupati, il presidente americano è comunque riuscito a scatenare la rabbia dei palestinesi con affermazioni piuttosto lapidarie sulle colonie. Intanto, l’IDF reprimeva con la forza le manifestazioni di protesta che si accendevano in tutta la West Bank. Le armi che usava erano con ogni probabilità armi americane, comprate con i fondi che gli USA riversano ogni anno nelle casse israeliane in nome del diritto alla difesa. Decisamente, nessuna favola.

Coloni israeliani ringraziano Obama per il supporto alle colonie (e al colonialismo) [Electronic Intifada]

Qui la pagina online (in inglese) di Breaking the Silence

Neno

 

 

 


Due domande e poco altro

Posted: Marzo 21st, 2013 | Author: | Filed under: General, Rifiuti Generici | Tags: , , , , | Commenti disabilitati su Due domande e poco altro

 

Quest’immagine conta più delle poche parole sotto. Samer Issawi è uno dei prigionieri politici palestinesi. È in sciopero della fame da più di 200 giorni. Ieri ha rifiutato di essere deportato a Gaza. Questo è solo un breve commento alla sua lettera (linkata più avanti). [Disegno di Shahd Abusalama]

Supponiamo che voi esistiate, e che non abbiate appena rapinato una banca. Siete nella vostra città, circondati dai vostri amici e/o dalla vostra famiglia, avete il vostro studio e/o lavoro fisso e/o precario, il vostro appartamento e/o tugurio, il vostro bel portatile su cui leggete blog filopalestinesi. Tutto sommato, siete tranquilli: quando uscite di casa non dovete preoccuparvi di come superare i checkpoint senza essere picchiati dai soldati israeliani, avete acqua corrente, e nessuna bomba vi pioverà a breve sul tetto. Invece, una mattina scendete in strada, vi trovate davanti una volante della polizia, e una decina di anni dopo fate il primo giretto post-detenzione. La banca non l’avevate rapinata voi, ma questo è marginale nella storia. Avete preso botte, siete stati umiliati, avete urlato per anni quello di cui eravate convinti, inutilmente. Vi ricordate bene il giorno in cui avete trovato il vostro compagno di cella impiccato, e non vi importava che fosse “colpevole” o no, avete odiato la violenza, avete odiato il fatto che l’unica decisione che potevate prendere era quella di morire. Morale della storia? Nessuna morale, una domanda: siete completamente sicuri di esistere ancora?

Ora, provate a pensare a come sarebbe stata la storia se la condizione di partenza fosse stata la vostra non-esistenza. Supponiamo siate cresciuti nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, che conosciate la sensazione che si prova quando una bomba cade a un soffio da voi, quando l’uscita dal porto della vostra barca da pesca viene salutata da raffiche di mitra, quando l’acqua l’hanno drenata tutta per la piscina del vostro vicino colono, quando una mattina senza preavviso un blindato israeliano sfonda il muro di casa vostra e vi trascina via davanti agli occhi della vostra famiglia. Non vi ricordate più in quante casupole siete stati trascinati e picchiati, sapete solo che adesso siete in una cella. Sapete anche  benissimo perchè siete lì, e gli potete dare qualunque nome: male, guerra, colonialismo, imperialismo. E leggete lo stesso negli occhi dei vostri compagni di cella malconci, stanchi, frustrati. Lo realizzate presto che per voi non c’è possibilità di fuga, che la prigione è prima fuori che attorno a voi. A quel punto, che voi siate idealisti o realisti fa poca differenza: l’unica speranza di liberarsi è che cadano i muri fuori dalla prigione. Così, vi appellate alle vostre forze residue, e fate l’unica cosa che siete liberi di fare: rifiutate il cibo, rifiutate chi pretende di mantenervi in vita per continuare a umiliarvi, e sperate che il vostro messaggio arrivi fuori dalla cella, fuori dalle carceri aperte o chiuse: ci sentite? Vogliamo sfondare questo muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza come gli F-16 israeliani sfondano il muro del suono!

Questa storia non ha una fine. Non ancora almeno. E non ha neanche una morale. Solo una domanda: siete completamente sicuri che Samer Issawy e tutti i prigionieri palestinesi che lottano come lui e con lui per la libertà non solo loro, ma della loro terra, non esistano?

Neno


Nè l’acqua

Posted: Marzo 17th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , | 1 Comment »

[Soundtrack:  Almost Blue]

18 agosto 2012. Valle del Giordano.

Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte; era come il giardino del Signore.
Genesi 13, 9-11

Alzo gli occhi. Una luce violenta. Sembra che tutto sia stato inghiottito dal sole. Tutto è così luminoso da ferire gli occhi. E il caldo a bruciarti la pelle. Ci muoviamo lenti, o, forse, il paesaggio uniforme trasmette questa impressione.

Alla mia sinistra, terra secca, arida. Gli unici elementi di interruzione in questo continuum spoglio sono sporadici accampamenti beduini palestinesi. Il sole batte sulle lamiere dei tetti, non un albero a fare ombra, solo teli stesi a creare un riparo. Nel niente sotto il sole.

Alla destra, distese di palme da datteri, a perdita d’occhio, perfette nella loro accurata disposizione geometrica, verdissime. I tronchi robusti, saldamente piantati nel terreno; le fronde ampie a proteggere il suolo dall’arsura. Insegne in ebraico stabiliscono orgogliosamente i limiti di proprietà.

È, forse, a quest’immagine che si riferisce la Genesi, come terra irrigata da ogni parte? A questa valle del Giordano guarda Lot, paragonandola al giardino del Signore?

Poi, vieni a conoscenza del fatto che circa l’90% delle risorse idriche del territorio sono in mano israeliana, lasciando alla popolazione palestinese (assai superiore in numero) il restante 10%. Aggiungi il fatto che nella valle del Giordano non si possa costruire cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, poiché vietato. Vedi come si inneschi così un rapporto di necessaria dipendenza, secondo il quale il palestinese non può vivere senza l’israeliano che gli venda l’acqua (la Palestina è, per questo ed altri motivi, il secondo mercato per lo stato d’Israele, dopo gli USA).

Ti dicono che il livello delle acque del Mar Morto decresce di un metro (un metro!) ogni anno, per un abuso da parte di Israele.
Che la valle del Giordano potrebbe essere il paniere per tutta la Palestina, se non ci fosse questo piccolo inconveniente dell’assenza di acqua.
Che il regime israeliano è, in questo senso, peggiore dell’apartheid sudafricano, dove elettricità e tubature dell’acqua erano in comune fra bianchi e neri.
Che la Palestina è l’unico carcere a dover pagare le tasse all’occupante.

Pensi, poi, al giorno prima quando, ad Hebron, dal rubinetto secco non scendeva una goccia, non una. Nello stesso momento, però, nella casa a fianco, un militare israeliano faceva la guardia ad una fontana.

E, allora, ti chiedi perchè continuare a vivere qui. Continuare questa resistenza contro una pulizia etnica implacabile. Ricostruire la tua casa per la terza volta, sapendo che presto un gruppo di militari la abbatterà, ancora una volta. Cercare l’indipendenza, sapendo che se scegli di lavorare, lavori per Israele, se compri l’acqua la compri ad Israele.. Andare alla ricerca di una vita, sapendo che tutti i suoi aspetti essenziali ti vengono negati, ancor prima che sottratti.

Ti risponde un beduino, nella sua calma ascetica, un sorriso sotto la barba bianca. Ti risponde mostrandoti i mattoni di fango creati per dar vita alla sua nuova casa (quella stessa che per tre volte è stata distrutta). Ti spiega che libertà è, per prima cosa, uno stato dell’animo. Ti dice che bisogna avere fiducia nei (seppur lenti) movimenti di cambiamento sociale. Aggiunge, infine, che, grazie alla solidarietà della società internazionale nei confronti del popolo palestinese, “non perderemo mai”.
To exit is to resist.

A.


Riflessi e riflessioni

Posted: Febbraio 13th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , , | Commenti disabilitati su Riflessi e riflessioni

Mi è capitato per caso tra le mani un libricino di un’ottantina di pagine; sulla copertina rossa, ancora luminosa, il titolo a caratteri neri, Documenti della rivoluzione palestinese (a cura di E. Polizzi, Edizioni Sapere, 1970); tra le pagine, ormai ingiallite, una raccolta di documenti dagli uffici di Al Fatah. Tra questi, “Gli Ebrei e i Palestinesi” (aprile 1970), tentativo di descrivere l’immagine con la quale i due popoli si sono rappresentati nel tempo e tutt’ora si rappresentano.

Premesse.

1. I documenti sono stati redatti da Al Fatah, quindi scritti “da mano” palestinese. Necessariamente e in modo indubbio, presentano una visione di parte, benché questa sia, all’interno del documento, moderata e, per quanto possibile, oggettiva.
2. Utilizzando il termine “ebreo”, non si vuole cadere in generalizzazioni o stereotipo alcuno. Dal documento stesso si evince un’attenzione particolare alla distinzione tra giudaismo e sionismo. Il termine sarà, nei casi equivoci, di volta in volta, specificato.

Procediamo con ordine (cronologico).

La frase “una terra senza popolo per un popolo senza terra” esprime la posizione iniziale dei sionisti nei confronti dei Palestinesi: essi non esistono, ma “esiste un paese che, sembra, si chiami Palestina, un paese senza popolo, e, d’altra parte, esiste un popolo ebreo che non ha un paese. Cosa resta da fare se non unire il popolo al suo paese?” (C. Weizmann). Pagine e pagine furono scritte sul nascituro stato d’Israele, non una parola sugli arabi palestinesi.

Benché “psicologicamente inesistenti”, i palestinesi erano un popolo in continua crescita in un paese prospero. Ecco che, dunque, la posizione sionista divenne ben presto insostenibile. Se l’esistenza degli arabi non poteva essere negata, non restava altro da fare che denigrare, negar loro la possibilità di avere diritti politici (come espresso dalla dichiarazione Balfour), ridurli al rango di beduini,  deturpatori del paese dove scorre latte e miele. I leader palestinesi erano, secondo la definizione di M. Samuel, “un’armata di pigri, di artisti falliti, di ciarlatani da caffè”. L’ebreo, nell’ottica sionista, era dunque una benedizione, spinto in Palestina da una missione civilizzatrice.

La realtà dei fatti era, però, da manipolarsi: ecco che, nella spiegazione fittizia sviluppata dal sionismo, i palestinesi avevano venduto le terre agli ebrei, volontariamente o indotti dai loro capi; erano loro a non voler convivere pacificamente con gli Europei portatori della civiltà; si lamentavano della vita nei campi profughi, quando “prima vivevano sotto una tenda, ora vivono ancora sotto una tenda!”.

Al sentimento anti-arabo, si oppose, come riflesso nello specchio, il sentimento anti-ebraico nutrito dai palestinesi: l’occupazione sionista, istilla l’odio nei confronti del “giudeo oppressore”, senza distinzione alcuna tra giudeo e sionista. Ma è l’idea della rivoluzione, il sogno della sua realizzazione, a far nascere un sentimento nuovo: i palestinesi non hanno né odio né amore per gli ebrei in quanto tale, riportando l’altro alla sua dimensione umana, spogliandolo del manto ideologico e della figura stereotipata di nemico. L’obiettivo prefissato da raggiungersi con la rivoluzione era ed è, infatti, la creazione di una Palestina democratica, in cui le differenti confessioni religiose convivano. Ecco, dunque, la volontà di aprirsi al dialogo con gli ebrei per “una nuova Palestina che non sarà fondata sulla frode, il razzismo o la discriminazione, ma sulla cooperazione e la tolleranza”.

E oggi?
Oggi, questo dialogo continua. Dialogo sussurrato, sottovoce.

Ma continua anche il tentativo di negare reciprocamente l’esistenza dell’altro. Persiste la volontà sionista di costituire uno stato ebraico, che non lasci spazio ad altre etnie o confessioni religiose. Come nelle scuole ebraiche ai bambini era insegnata “la stupidità congenita degli arabi” (dato evidenziato nel 1923 dall’antropologo Goldenweiser), così gli odierni libri di testo israeliani sono improntati su un sentimento anti-arabo. Come, nella realtà falsata dai sionisti, i Palestinesi avevano volontariamente venduto le terre agli ebrei, così oggi si ritiene la Nakba, l’esilio forzato dei Palestinesi nel 1948, una migrazione volontaria.

Dialogo spesso non udito.

Dalla prospettiva palestinese, è taciuta l’esistenza di Israele, negata la sua legittima esistenza. “Fino a quando i palestinesi vivranno sotto l’occupazione israeliana – ha commentato Jihad Zarkarneh, responsabile della selezione dei libri di scuola per il Ministero dell’Educazione dell’ANP – i nostri libri non potranno mostrare Israele sotto una luce positiva”.

Dialogo spesso rifiutato.

Absa


Coloni Inconscienti. Di videogiochi e strette di mano.

Posted: Gennaio 21st, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , , , | Commenti disabilitati su Coloni Inconscienti. Di videogiochi e strette di mano.

Il brig. gen. Topolansky (IDF) e, a destra, il gen. Vecciarelli (esercito italiano). Potete ridere.

Tutto questo parlare di muri, bombardamenti, guardie e colonie impone di ricordare un rischio. Puoi vederti scorrere davanti tutto il male del mondo senza sentirtente responsabile. Così, il massimo che puoi provare è una sincera indignazione vittoriana (“Oh, my God, poveretti!”). Con questo meraviglioso sentimento, i vittoriani avevano conquistato un buon terzo del globo terracqueo in colonie.  “Molti dei coloni non sanno neanche di vivere in una colonia, non si rendono conto che ci sono gli arabi, sono qui per motivi economici” dice una donna intervistata in The Iron Wall (il documentario recensito dalla nostra Absa). Le immagini si incidono sempre meglio delle parole. Però anche certe parole… “Come essere in un videogioco”. Ecco. Un gioco. Responsabilità, non ne abbiamo. Dici: siamo lontani. No. No.

Li vedete i due simpatici tipi qui sopra? Guardate le bandiere. Italiana e israeliana. Desert Dusk: esercitazione militare congiunta in territorio palestinese. Il 17 maggio 2005 è stato ratificato l’ultimo trattato (qui il testo) di partnership militare tra le due nazioni. Lo avevano stipulato a Parigi, due anni prima, Silvio Berlusconi e Ariel Sharon (che avevano colto l’occasione per annunciare lo stanziamento di 181 milioni di dollari per “lo sviluppo di un nuovo sistema di guerra elettronica progettato per inabilitare i velivoli nemici”) . L’Italia ha iniziato una collaborazione a lungo termine con uno degli eserciti più potenti e aggressivi del mondo. Ci esercitiamo insieme e ci scambiamo allegramente armi. L’Alenia Aermacchi, ad esempio, è un’ anzienda italiana a partecipazione statale (tradotto: i contributi dei cittadini tra le altre cose finanziano anche questa azienda). Produce caccia F-346 che, in base all’accordo citato, saranno venduti  a Israele. Dici: sono ragioni economiche. Come per i coloni.  Dici: si, ma noi abbiamo una cultura diversa, noi siamo aperti, liberali, non abbiamo mai ucciso nessuno.

C’è un monumento, nella campagna laziale, ad Affile. E’ dedicato ad un tipo come quelli in fotografia. Si chiamava Rodolfo Graziani, criminale di guerra. Italiano. Uno dei gerarchi fascisti più in alto,”vicerè” d’Etiopia. Dopo una guerra di conquista tra le più sanguinose della storia (una delle prime in cui furono utilizzati i gas), cominciò a reprimere paranoicamente ogni tentativo all’autodeterminazione da parte etiope.  Il 19 febbraio del 1937 fu obiettivo di un attentato fallito. Da allora cominciò ad internare a migliaia i locali dietro mura d’acciaio. Perchè forse non ce ne ricordiamo più, ma i campi di concentramento li hanno costruiti anche gli italiani. No, non abbiamo “soltanto” aiutato i nazisti. Li abbiamo proprio costruiti, muri, filo spinato e morti a centinaia. In Africa. E avevamo già dei generali che si stringevano mani. E si chiamava colonialismo. Costruivamo colonie. Per motivi economici.  Un archivio storico sui campi italiani è stato messo online in questi giorni. Questa è la testimonianza di un internato, imprigionato torturato, a Nocra, in Eritrea.

Il sacrario dedicato a Graziani costruito nell’autunno scorso ad Affile (Roma), su finanziamento della Regione. Si, sopra c’è scritto “Patria” e “Onore”.

Dici: questa è storia, con la Palestina non c’entra nulla, non è attualità.

The Iron Wall è anche il titolo di un articolo di Vladimir Jabotinskij. Si, quello citato all’inizio del documentario. “I miei lettori hanno certo un’idea generale della storia della colonizzazione in altri paesi. Provino a considerare tutti i precedenti storici di cui sono a conoscenza, e vedano se riescono a trovare un solo caso di colonizzazione portato avanti con il favore della popolazione locale. Un simile precedente non esiste. […] Gli arabi provano per la Palestina in ultima istanza lo stesso istintivo, geloso amore dei vecchi Aztechi per il Messico, dei Sioux per le loro vaste praterie. […] La colonizzazione può avere un solo scopo, e gli arabi palestinesi non possono accettare questo scopo”*. E’ la stessa storia. Esattamente quello che aveva realizzato Graziani. I primi sionisti studiavano in Italia le strategie di colonizzazione: lo stesso Jabotinskij ha fondato a Civitavecchia la marina militare israeliana, con l’appoggio di Mussolini. Strette di mano che si succedono uguali. E non sono passati secoli, non sono storie diverse. Non c’è attualità, al di fuori di questo. Conoscerla vuol dire assumersi le proprie responsabilità.

*Traduzione mia

Neno


Muri, genocidi e dintorni: pensieri sparsi dall’Aldiquà

Posted: Gennaio 17th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , | 2 Comments »

pa1

Quando, nel 1875, il titolare del Ministero della Guerra (ah, la brutale sincerità dei tempi andati!) argentino si ripromise di liberare le regioni interne della nazione dagli indios che le abitavano da secoli, la prima cosa che gli venne in mente di fare fu di ordinare la costruzione di una trincea di trecentosettantaquattro chilometri nel mezzo della pampa. Noi di qua, voi di là. Sarebbe seguito quello che molti ritengono il primo genocidio dell’umanità. Errori di percorso.

Centotrenta anni dopo, il Ministro della Difesa del governo Sharon, in Israele,  ha la stessa, brillante idea dello statista argentino. E’ il 2002: contro gli attacchi terroristici (?!) si inizia a costruire una barrirera protettiva (questa è la denominazione ufficiale) che separi la Cisgiordania dallo stato sionista. Detto, fatto: settecento chilometri. Cui si aggiungono quelli della identica barriera che circonda la striscia di Gaza (murata già nei primi anni ’90, poi di nuovo nel 2001 dopo la Seconda Intifada). Che uno, a voler essere cinico e un pò infantile, dice: rozzo, ma efficace. Voi rompete il cazzo a noi, e per di più non fate altro che lamentarvi di quanto noi vi rompiamo il cazzo? Bene: ciascuno dalla sua parte, almeno restiamo in pace. Questa placida visione delle cose è disturbata però da un problema non da nulla. E non si tratta solo del fatto che attraverso il muro della Cisgiordania Israele abbia inglobato una parte considerevole del territorio palestinese (operazione che è stata dichiarata illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia). Il problema è la massa dei morti che costellano l’attuazione di queste geniali intuizioni politiche. Dalla ri-costruzione del muro attorno a Gaza sono state almeno sette le operazioni militari che hanno colpito la Striscia (“Arcobaleno”, “Giorni di penitenza”, “Piogge estive”, “Nuvole d’autunno”, “Inverno caldo”, “Piombo fuso”, “Colonna di nuvole”*). Bombardamenti, invasioni via terra. Per non parlare delle vittime dirette dei soldati di guardia. Le ultime due risalgono a martedì scorso. Erano Samir Ahmed Awad e Mustafa Abu Jarad, colpevoli di essersi avvicinati troppo alle barriere. Errori di percorso? Probabilmente no, chè i politici israeliani continuano a farsi promotori della stessa soluzione per la “pubblica sicurezza”. E’ di questi giorni la notizia che si continueranno le costruzioni per difendere Israele dai vari “nemici” ai confini: da Siria e Libano (contro Hezbollah, pare), e dall’Egitto (Sinai). Quest’ultima barriera servirà anche ad arginare le ondate migratorie dall’Africa centrale. Il che ricorda un altro muro, in una parte del mondo insospettabile. Il confine tra USA e Messico. Chilometri di lamiera, torrette e guardie. Duemila morti in neanche dieci anni. Il problema ritorna: c’è qualcosa di profondamente aggressivo in queste opere di difesa. Il muro che si rivela in realtà la piattaforma di lancio per azioni offensive. Solo bombe e proiettili possono passare. E i finanziamenti, chiaro.

Non è solo questione di ottusità mentale. L’apparente contraddittorietà di questo fenomeno non si spiega solo con la mentalità chiusa di certe culture reazionarie. C’è qualcosa in più. E’ la vecchia, segreta storia di ogni appello inneggiante alla sicurezza: invece che nasconderli, i muri mostrano i nemici. Dietro quella barriera di sicurezza, l’arabo stremato da anni di assedio in un lampo è il terroristafondamentalistakamikazejihadista, il messicano il narcos assetato di sangue, il sudanese lo stupratore seriale. Il muro non è mai uguale da entrambi i lati. Così premere il grilletto diventa molto più facile, nell’Aldiquà. Quasi come cambiare canale. Perchè le favole, anche le più ambigue, diventino reali, uno dei mezzi più efficaci è nascondere la realtà.  Ancora una volta, è una questione di informazione. E ancora una volta a noi sta cercare di far sì che almeno le voci di chi è di là vengano ascoltate da questa parte.

*Il fatto che i nomi paiano usciti da una poesia del primo Romanticismo inglese non è per nulla divertente.

Neno

P.S. ai norditalici: Questo discorso NON vale per il lungolago di Como (almeno, non risultano voci di gruppi terroristici provenienti dalla Svizzera). Può valere invece per il “fortino” in Val Susa.

 


Oblita Corrige

Posted: Gennaio 14th, 2013 | Author: | Filed under: General | Tags: , , , , | Commenti disabilitati su Oblita Corrige

Avremmo voluto dedicare questo blog alla Palestina. Eravamo indignati, incazzati per l’indifferenza pubblica ai massacri, alle provocazioni. Avremmo voluto essere i vostri tarli del dubbio.

Invece una mattina ti svegli e scopri che quella regione di mondo che sembrava starti tanto a cuore non esiste. Scomparsa: non un titolo, non un cenno. Allora cominci a chiederti se  sia mai esistita, magari avevano ragione quei politicanti statunitensi…  Di certo è stata tra noi qualche ora, il 29 novembre, quando è stata ammessa come membro osservatore all’ONU (“osservatore” perchè il veto degli USA ha fatto sì che la richiesta di ammissione come membro effettivo venisse sempre respinta. Se la memoria non mi inganna, chiaro). Questo sembra di ricordarlo. Prevedibilmente resusciterà in tempo per fare qualche richiesta all’Assemblea, magari un appello perchè si fermi la colonizzazione israeliana e il proliferare di palazzi che mirano a soffocare le ultime zolle di terra ancora in qualche modo indipendenti del territorio della Cisgiordania. Prevedibilmente. Allora accadrà che i rappresentanti delle nostre nazioni si leveranno indignati contro questo scempio, minacceranno misure severissime, fino a che… Palestina? Devo averlo gia letto da qualche parte… Non era dove hanno fatto quella guerra con i fondamentalisti islamici? Vuoto pneumatico. Con calma, cerchiamo di far riaffiorare qualcosa. “Dobbiamo radere al suolo interi quartieri di Gaza. Radere al suolo Gaza tutta intera. Gli americani non si sono fermati di fronte ad Hiroshima. Il desiderio di evitare di colpire civili innocenti a Gaza alla fine porterà a danneggiare i veri innocenti: i residenti a Sud di Israele. I residenti di Gaza non sono innocenti, hanno eletto Hamas”. Niente? Sono parole di Gilad Sharon (il figlio di Ariel, l’ex-premier israeliano) sulle pagine del Jerusalem Post, uno dei più importanti quotidiani di Israele. Era il 18 novembre, due mesi fa. I giorni in cui i bombardamenti dell’IDF su Gaza uccidevano centosessantatrè persone, i giorni in cui la vita era questo. Difficile dimenticare le immagini, per quanto lontane. Ma le parole sfuggono, e ci sono sfuggite, assieme ai loro autori. E’ bastata qualche settimana a cancellare il ricordo:  non abbiamo visto nulla, nulla degli gli appelli dei ragazzi di Gaza (“”Da Gaza alla gente di tutto il mondo. Noi non siamo numeri, noi siamo esseri umani! Abbiamo dei nomi, abbiamo delle famiglie, abbiamo dei bambini, abbiamo delle emozioni e abbiamo dei sentimenti. Ogni vita ha una storia. Come le avete voi e come qualsiasi essere umano! Non siamo solo delle dannate notizie di morte!”), nessuna delle centinaia di denunce di organizzazioni umanitarie sul posto. Qualche vaga reminiscenza di titoli di giornale: “terroristi”, “appelli per la pace” , “razzi”. Roba vecchia. Roba morta.

La mattina del 10 dicembre gruppi di soldati dell’esercito israeliano fanno irruzione nelle sedi di tre ONG palestinesi (Ad-Dameer, Rete ONG Palestina, Unione Comitati delle Donne): dagli uffici devastati (qui il link alle foto) scompaiono fotocamere, documenti, laptop, hard disk. E allora viene un dubbio. Forse non erano vuoti di memoria. Forse la perdita di memoria avviene a livello oggettivo molto prima di quanto avvenga a livello soggettivo. E magari,  ti chiedi, una regola della nostra realtà felice e pacifica può essere proprio questa: uccidete, se volete, ma che non si venga a sapere. Il compito primario degli eserciti diviene allora quello di eliminare le potenziali testimonianze prima ancora di procedere a eliminare i nemici, i ribelli, i terroristi. Durante gli ultimi bombardamenti su Gaza tra i primi obiettivi sono state colpite le sedi dei mezzi di informazione. E pochi giorni fa sono state pubblicate alcune dichiarazioni di soldati israeliani al governo nelle quali si lamenta la continua presenza di telecamere in mano ai manifestanti palestinesi, che impedisce una serena repressione delle proteste (“T. says the cameras on the ground undermine the forces’s efforts. “A commander or an officer sees a camera and becomes a diplomat, calculating every rubber bullet, every step. It’s intolerable, we’re left utterly exposed. The cameras are our kryptonite.” ). Eppure è evidente che per quanto sforzi si facciano per stroncare sul nascere le voci dei testimoni diretti, abbiamo comunque accesso a una gran quantità di informazioni di prima e di seconda mano (e la rete è evidentemente la principale risorsa in questo senso).  Si tratta di cercarle. Non ci mostreranno le bombe, gli arresti di massa, i check-point, le colonie, i profughi. Bisogna guadagnarseli. Dopodichè, sapere non è abbastanza, e dovremo riflettere. Ma per farlo in tutta coscienza, forse vale la pena tenere anche solo una piccola parte del nostro udito sintonizzata su quel lembo di terra in perenne lotta per esistere.

Neno

 

 

 


…Stiamo arrivando!

Posted: Novembre 27th, 2012 | Author: | Filed under: General | Tags: , | Commenti disabilitati su …Stiamo arrivando!